Festival delle culture 2021. Una storia che parla di noi
Luglio 2021. Dibattiti, concerti e sapori del mondo alle Artificerie Almagià e in Darsena di città
L'obiettivo era attrarre i giovani. E i giovani sono arrivati. Numerosi, interessati, partecipi.Contemporanei nel loro mescolarsi e interrogarsi su un mondo cambiato, in cambiamento. E che cambierà ancora. Per fortuna.
«La prima volta che ho detto ti amo, giuro l'ho fatto in italiano».
Lo ha cantato Tommy Kuti, il rapper afro italiano dall'accento bresciano, durante la giornata di apertura del Festival delle Culture 2021. Un'edizione rimasta in forse fino all'ultimo, traslata in avanti di un mese rispetto al solito, e arrivata dopo un anno senza dibattiti né stand gastronomici tra la Darsena e l'Almagià di Ravenna. Kuti, classe 1989, è stata solo una delle voci potenti del Festival.
Voci che hanno rimarcato ad alta voce quanto l'identità sia liquida, sfuggente a caselle ed etichette, in continuo divenire.
Lo si è capito anche nelle potenti parole di Djarah Kan, la scrittrice italo-ghanese cresciuta a Castel Volturno, che ha gettato luce su un tema poco trattato: l'intersecarsi del razzismo, dunque dei muri determinati dall'origine delle persone, con la questione di genere e quella di classe. Argomenti di forte attualità che hanno messo in crisi ancora una volta molte delle nostre categorie, spingendoci a riflettere sul fatto che oggi sia riduttivo ragionare solo su bianchi e neri.
«Io di razzismo non parlo perché mi sembra assurdo che nel 2021 siamo ancora qui a discuterne».
Danielle Frederique Madam, paladina della battaglia per la cittadinanza e vincitrice del Premio Intercultura 2021, dopo un passato pesante e la negazione dei diritti fondamentali vissuta sulla propria pelle, oggi non ci sta a dover sottolineare la necessità e la naturalezza di essere anti-razzisti.
Eppure, da altri ospiti è giunta prepotente l'urgenza di doverlo dire ancora. Come Adrian Fartade, artista e divulgatore scientifico di origine rumena, che facendo spesso e volentieri ridere il pubblico durante il suo intervento, ha fatto un esempio su tutti:
«Una volta ho fatto il provino per un film ma mi hanno detto che non sembravo abbastanza rumeno. Ma che cosa significa essere abbastanza rumeno?».
La goliardia è anche lo scudo che Boban Pesov, illustratore di origine macedone, ha raccontato di esercitare quando lo attaccano, sul web, usando motivazioni razziali.
L'eterogeneità e il pluralismo delle testimonianze di vita presentate al Festival ha fatto rima con un dibattito davvero calzante stimolato dall’antropologo Marco Aime: quello sull'identità come cantiere sempre aperto, mai statica, mai cristallizzabile in una definizione. Gli spostamenti delle persone, le esperienze umane e la vita stessa ci rendono, in fin dei conti, tutti flessibili nel nostro essere e divenire.
A ribadirlo è stato anche Soumalia Diawara, il poeta e attivista maliano rifugiato in Italia che, con i suoi versi taglienti e senza sconti, non ha mai paura di urlare la violenza delle discriminazioni e di una società che ancora fa differenze tra le persone. Messaggi che al Festival, come da tradizione, sono stati tradotti anche in musica e danze.
Nella mezcla sonora di Pedro Makay, l’artista di Bilbao che assorbe, nella sua produzione, sonorità da tutto il mondo. O nel percorso appena inaugurato dalla Kola Beat Band la cui cantante Ariane Salimata Diakite, nata in Romagna da mamma maliana e papà ivoriano, riassume in sé tutto il fluire delle identità multiple. Che la musica proveniente dal contenitore africano, ha raccontato, sta contribuendo senza dubbio a mettere in equilibrio.
Mai come in questa edizione, il senso del mescolarsi è stato così forte.
E nell’esserlo, è stato propedeutico al lancio di un’iniziativa per cui Ravenna è prima in Italia: quella dell’ Albo delle famiglie accoglienti , con cui il Comune mette insieme tutti i possibili modi di accogliere l’altro e lasciare il segno nella vita delle persone che ne hanno bisogno. E, in fin dei conti, anche nella propria.
L’intercultura è anche il minimo comune denominatore di Parola Aperta , il magazine nato sulla scia del Festival. E di R.I.T.I, la Rete interculturale sui temi dell’immigrazione che si è riunita la prima volta proprio in quei giorni.
Mescolarsi per cercare ciò che elimina le distanze, anche attraverso le immagini, come hanno raccontato Nias Zavatta, Francesco Raffaelli e Alessandro Tegon, vincitori del concorso fotografico Così lontano, così vicino, promosso dalla Casa delle Culture.
Sullo sfondo, la Darsena. Un quartiere che cambia proprio come mutano le identità delle persone, e che è stato il protagonista dell’escape room Di.Di.Ay allestita fuori dall’Almagià: l’invito a conoscerlo meglio è sempre attuale, in attesa del 2022, e di un’edizione del Festival che avrà il compito di lasciare un segno ancora più forte sui dubbi delle persone. Perché anche le sensibilità di chi ha partecipato, già molto mature, hanno senz’altro ricevuto nuovi scossoni. Per rinnovare lo sguardo sul mondo, sulle cose, sulle persone.
CREDITI
Video a cura di Gerardo Lamattina
Interviste di Silvia Manzani
Fotografie di Luca Gambi